Il Tribuno, dott. Settimio Bernardi, ci propone la lettura di questo opuscolo, scritto tempo fa dal Tribuno Dott. Alessandro Piscaglia a sostegno delle ragioni storiche del passaggio di sette comuni – Casteldelci, Maiolo, Novafeltria, Pennabilli, San Leo, Sant’Agata Feltria, Talamello – dalle Marche alla Romagna, avvenuto per legge nel 2009. Si tratta di un’interessante e piacevole disquisizione sulle differenti personalità e sulla rivalità fra Federico II da Montefeltro e Sigismondo Malatesta, sulla mancanza di scrupoli di entrambi nell’alterare i confini dei rispettivi territori, e sulla soluzione architettonica che marcò i rispettivi castelli.
Oh, che gran differenza tra i due! Uno era colto ed amante delle arti, all’altro, Sigismondo, piaceva far spocchia e gli piacevan belle e giovani le donne mentre Federico si contentava di anziane e modeste purché avesser dote buona. In quanto a dote, Sigismondo non era avido, però anche se piccola, in caso di morte della consorte non ebbe mai l’idea di restituirla. Non gli piacevan, inoltre, gli scandali o quanto meno gli seccava essere oggetto di pettegolezzi. Se la moglie gli veniva di peso non inventava ignobili intrallazzi a sfondo amoroso o sessuale che gli consentissero l’annullamento da parte del Papa. Provvedeva da solo, con discrezione, nel silenzio assoluto della femmina a cui chiudeva la bocca e il naso. Si con forza, mai con violenza e usava cuscini morbidissimi confezionati con nobili stoffe degne del rango e del censo. Era focoso Mundin, ma anche gioioso e cameratesco. Continuava il gioco del padre di far da cassiere ai suoi soldati e rideva forte e a cuore aperto quando qualcuno di loro, ritenendosi derubato, lo insultava chiamandolo Pandolfaccio. Chiassoso e un po’sgarbato era un romagnolo, anzi un romagnolaccio. Si, era diverso dal compassato e diplomatico Federico che fregava la gente e derubava secondo le regole, facendo sempre registrare crediti e confini dai notai apostolici.
Ma in quanto a rispetto delle proprie proprietà entrambi erano severi e quel di Rimini metteva di persona un cordone al collo di chi sospettasse di tradimento mentre a quello di Urbino piacevan le congiure. Ci trovava gusto, ordir congiure gli dava più serenità che giocare a briscola oppure a dadi. Torniamo ai confini, che variavano ogni settimana come i confini tra i poderi non segnati da alberi antichi. Mi viene in mente il mio bisnonno che, a dir del nonno, era sempre stanco ed io ho capito perché. Non dormiva abbastanza, stava sempre di guardia di notte a veder se il vicino fosse sveglio e quando era certo che tutti riposassero quieti con sogni belli correva a svegliare il figlio grande per farsi aiutare a spostar, con leve e gran fatica, di due metri, i pietroni di confine. Mordi un podere oggi, ruba una macchia domani, recinta un pascolo il giorno dopo, i confini tra i Malatesti e i Montefeltro sembravano lombrichi impazziti che costringevano, poveretti, i Signori a far ammazzare un po’ di contadini per il gusto della vendetta e per un poco di giustizia.
Dovettero, alla fine, ricorrere ai tecnici. Si dice che l’idea sia stata dell’architetto zaratino che lavorava per Federico. Consigliò al suo Duca di marchiare la terra come si fa con le mandrie che pascolano fuor dagli stazzi e dagli ovili. ‘Timbra le tue terre!” disse il Laurana.
E Federico ordinò che, ovunque, torrazzi, maschi di castelli, torricini si facessero a timbro, tondi. Ed ecco freneticamente, a Sassocorvaro, ad Urbino, a Mondavio col compasso a segnar costruzioni rotonde. Che poi, nella fretta, non tutte riuscivano tonde, guarda che ovoide a Cagli!
Ma a Rimini non dormivano e appena se ne accorse Sigismondo convocò urgente tutti i suoi architettori urlando: “Al groma! Al groma! Sian tutti angoli retti!” Le conseguenze le constatiamo ancor oggi: le morbide colline di cui era padrone Federico portano in cima castelli rotondi come corone ducali; tutte le terre in cui mietevano i sudditi di Sigismondo ebbero castelli e torri quadre come la centuriazione romana.
Verucchio, Montefiore, disegnano a spigoli il loro profilo nel cielo. Sono sinuosi i dossi dei colli marchigiani. E Federico e Sigismondo contemplando i loro possessi erano contenti e soddisfatti come chi acquista un podere e rimira compiaciuto sul muro bianco della loggia, dipinto in grande da un artista, il proprio cognome. Roba mia! E s’allarga il cuore.
I due Duchi hanno marcato il territorio come nel Far West si marchiava il bestiame, ma la toponomastica dice che l’alta valle del Marecchia è Romandiola. L’imperatore Augusto fece dono ai suoi soldati fedeli e valorosi di un quadrato di terra. Liquidò in natura il Trattamento di fine rapporto. I soldati presero a chiamare il loro TFR col proprio nome e così il podere di Livio veniva chiamato praedium Livianum, quello di Seclo praedium Seclanum, quello di Maccio praedium Macianum. E noi oggi li chiamiamo Libiano, Secchiano, Maciano.
I potenti Montefeltro sono riusciti a tener sottomessi i romagnoli, ma, mai, sono riusciti ad assimilarli. E non sarebbe stato male che si fossero ingentiliti e un poco addolciti i romagnoli a contatto con i cortigiani di Urbino educati da monsignor Baldassarre. Han preferito restar selvaggi con le loro rustiche usanze. Scontrosi romagnolacci. Ne do prova. Come si chiamava il piu grande pittore marchigiano e della Terra intera? Di nome Raffaello come un arcangelo e Santi di cognome. Come si chiamava il massimo pittore romagnolo? Cagnacci. Questo in altri tempi, ma oggi? Sfogliate l’elenco telefonico di Pesaro e troverete Michelucci, Angelucci, Pasqualini. Quello di Santarcangelo? Antoniacci! Baldacci!
Questo sapore rustico a noi piace, come pur ci piace il nostro dialetto scabro che esplode come una sfilza di petardi. Ci conosciamo bene. Sappiamo che è tutta crosta, che dentro siamo teneri e in casa comandano le arzdore. Loro ci comandano e noi ce le godiamo, anche perché sono tolleranti e sopportano che raccontiamo che d’estate facciamo i vitelloni. E tutti gli anni, passata l’estate, viene gradatamente l’autunno e poi torna l’inverno e le donne, quanto più freddo sia, tanto più volentieri mandano i loro uomini a far la spesa del pesce. Detto questo, riconosciamo che non siamo gente eccezionale, non siamo uomini da molto, ma abbiano nel cuore la certezza che mai rinunceremo all’ansito di libertà. Siamo rumorosi, estroversi, siamo orgogliosi e vanitosi; forse non siamo efficienti, non siamo modesti, né lavoratori tenaci come i marchigiani; ci piace ostentare e farci vedere. Come i bottoni sul davanti. Siamo bottoni, ma, credeteci a Pesaro, siamo bottoni che non sopportavano gli Occhielli.
I romagnoli sono ostinati, sfacciati e ambiziosi, rialzano sempre la testa per la loro caparbietà e per la loro forza. Orgogliosi, ho detto, genuini, l’ha detto Tombari. Ne dò prova. Quando hanno avuto l’occasione non l’hanno voluta sfruttare. Quando comandava Mussolini sarebbe stato facile entrare a far parte della provincia natale del Duce. Quello e stato il solo periodo in cui, silenti, si accettava la sudditanza da Pesaro Urbino. Ora vogliamo tornare alla nostra piccola Patria Romandiola per volontà, per diritto e per merito nostro, non per la benevolenza del Dittatore. Nessuna preclusione per il fascismo, che fascisti nella Valmarecchia si è stati come altrove in Italia, ma non profittatori. Orgogliosi, permalosi, ma non rassegnati. E ora e l’ora. È l’ora giusta. Parola del Comitato!
Sandro Piscaglia