L’incapparellatura è la cerimonia di ingresso dei nuovi tribuni nel Tribunato di Romagna, l’associazione senza fini di lucro, nata il 13 febbraio 1967 a Bertinoro come Tribunato dei vini di Romagna grazie all’impegno instancabile di Alteo Dolcini e la collaborazione fondamentale di Max David. I tribuni sono scelti per cooptazione sulla base delle loro esperienze culturali, letterarie, artistiche, scientifiche e professionali, con lo scopo di collaborare all’affermazione e alla salvaguardia del patrimonio culturale e delle tradizioni del popolo romagnolo, nonché alla valorizzazione dei prodotti tipici del territorio della Romagna. Un’associazione quindi tutta basata sull’amicizia romagnola: forte, sincera e solidale.
Le insegne ufficiali del Tribuno consistono nella “veste tribunizia”, ossia la capparella grigia ( la caparèla bartèna) con il collo di pelliccia di coniglio, il collare di ceramica faentina e la pergamena personale. La capparella quindi insegna e capo d’abbigliamento romagnolo che si porta sopra gli abiti per proteggersi dal freddo, dalla pioggia e dal vento. Si tratta di un mantello a ruota da uomo lungo fino al polpaccio, con un solo punto di allacciatura sotto il mento, che viene tenuto chiuso buttandone una estremità sulla spalla opposta così da avvolgerlo attorno al corpo. La versione invernale è di panno pesante grigio scuro, con il colletto basso spesso ricoperto di pelliccia: astrakan nero per i signori e coniglio per i meno abbienti. La versione più leggera per la mezza stagione è di solito di colore più chiaro.
Dalla seconda metà dell’Ottocento, l’indumento viene comunemente indossato dagli appartenenti a tutte le classi sociali, poi durante il fascismo gli viene riconosciuto un’ispirazione anarchica (socialista o repubblicana) per cui ne viene praticamente proibito l’uso nelle città. Continuano ad indossarlo, fino agli anni ’50, i fattori, i mercanti, i mediatori, i sensali e i contadini che affollano le piazze dei paesi romagnoli durante i giorni di mercato. Una capparella elegante è quella indossata dal giovane scultore Domenico Rambelli (Pieve di Ponte 1886 – Roma 1972) nello straordinario ritratto eseguito un anno prima di morire da Domenico Baccarini (Faenza 1882-1907). Lo stesso Rambelli enfatizzerà il gesto dello scrittore Alfredo Oriani nel monumento a lui dedicato collocato in prossimità della rotonda Muki a Faenza, con il lembo della capparella sollevato come un’ala.
L’artista realizza così quella deformazione semplificata che è tipica della sua originalità stilistica. Più austero è l’Oriani sul Colle Oppio a Roma scolpito da Ercole Drei (Faenza 1886 – Roma 1973) nel 1935, che anche lui “si muove” grazie ai vuoti e ai pieni che la capparella realizza appoggiandosi sul suo corpo. Due opere formidabili.
Umberto Zimelli (Forlì 1898 – 1972) con i suoi inquietanti, quasi minacciosi, “sensali” del 1930 traccia l’archetipo dei “portatori” di capparella. Una grafica, la sua, di una modernità espressiva incredibile. Altrettanto vale per Domenico Dalmonte (Brisighella 1915 – 1990) con la tenera figurina “incaparellata” che risalta sul paesaggio innevato davanti a Brisighella (copertina del n.1 de la Piè del 1957 e del volume del 2005, dedicato all’attività xilografica dell’artista curata dal figlio Attilio per l’Editrice La Mandragola di Imola). Diversa, ma non meno incisiva, la sagoma dell’anarchico riminese “Pevur” disegnata nel 1955 da Demos Bonini (Rimini 1915 – 1991). La caparèla, assoluta icona storica della Romagna e valido strumento “par fè la caparlàza”, ovvero ribaltarla sulla testa di un traditore o di una spia per immobilizzarlo e, senza farsi riconoscere, bastonarlo.
Questo articolo scritto dal dott. Sergio Sermasi, è stato pubblicato sul “Corriere di Romagna” il 16 gennaio 2017